Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità.
Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero.
Anonimo
venerdì 28 dicembre 2012
Victor Hugo - Un'idea
"C'è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo, e questa è un'idea il cui momento è ormai giunto."
Victor Hugo
giovedì 27 dicembre 2012
Antonio Gramsci - Odio gli indifferenti
http://www.youtube.com/watch?v=mP31bxDDg7g
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza.
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti.
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.
I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.
E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?
Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto.
E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Antonio Gramsci
mercoledì 26 dicembre 2012
Noam Chomsky - Il principio della rana bollita
Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare.
La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.
L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce -semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.
Questa esperienza mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta.
Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subiamo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e – oggi – ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute.
I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche.
Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa.
Allora se non siete come la rana, già mezzo bolliti, date il colpo di zampa salutare, prima che sia troppo tardi!
Noam Chomsky
martedì 25 dicembre 2012
Dominique Miséin - Il male minore
Il male minore
Dominique Miséin
Alcuni anni or sono, in occasione di una scadenza elettorale, un celebre giornalista italiano invitò i propri lettori a turarsi il naso e a compiere il proprio dovere di cittadini, recandosi a votare per il partito allora al potere. Il giornalista era ben consapevole che all’olfatto della gente quel partito emanava il fetore di decenni di putridume istituzionale — soprusi, corruzione, malaffare — ma la sola alternativa politica disponibile sul mercato, la sinistra, gli sembrava ancor più nefasta. Non rimaneva quindi che turarsi il naso e votare per i governanti già al potere.
All’epoca, per quanto oggetto di molte discussioni, questo invito riscosse un certo successo e in un certo senso si può dire che fece scuola. Non è sorprendente. In effetti il ragionamento di quel giornalista faceva leva su uno dei riflessi condizionati sociali più facilmente riscontrabile, quello che sia la politica del male minore a guidare le scelte quotidiane della maggior parte delle persone. Messo di fronte ai fatti della vita, il buon senso comune è sempre pronto a rammentarci che fra alternative parimenti detestabili non resta che optare per quella che ci sembra meno foriera di tristi conseguenze.
Come negare che tutta la nostra vita si riduce ad essere una lunga ed estenuante ricerca del male minore? Come negare che l’ipotesi di scegliere il bene — inteso non in senso assoluto, è naturale, ma più semplicemente come ciò che si reputa tale — sia in genere scartata a priori? L’intera nostra esperienza e quella delle generazioni passate ci insegnano che il mestiere di vivere è uno dei più duri e i sogni più ardenti non possono avere che un tragico epilogo: uccisi dal suono della sveglia, dai titoli di coda di un film, dall’ultima pagina di un libro. «Così è sempre stato» — ci viene detto con un sospiro. Dal che deduciamo che così sempre sarà.
Sia chiaro, tutto ciò non impedisce a noi tutti di cogliere la nocività di quanto abbiamo di fronte. Sappiamo di scegliere comunque un male. Ciò che ci manca — e ci manca perché ci è stata sottratta — non è tanto la capacità di giudicare il mondo che ci circonda, la cui infamia si impone con l’immediatezza di un pugno in faccia, quanto quella di andare al di là delle possibilità date. O anche solo di tentare di farlo. Così, adducendo l’eterno pretesto che si rischia di perdere tutto se non ci si accontenta di ciò che già si possiede, si finisce col trascorrere la propria esistenza all’insegna della rinuncia. È la stessa vita quotidiana, con la sua indiscrezione, ad offrirci numerosi esempi in proposito. In tutta sincerità, quanti di noi possono vantarsi di godere della vita, di esserne appagati? E quanti possono dirsi soddisfatti del proprio lavoro, di queste ore senza scopo, senza piacere, senza fine? Eppure, di fronte allo spauracchio della disoccupazione, siamo pronti ad accettare una miseria di salario pur di evitare una miseria senza salario. Ancora, come spiegare quel prolungare fino all’estremo gli anni dello studio, caratteristica assai diffusa, se non con l’ostinato rifiuto di entrare in un’età adulta in cui si avverte la fine di una già precaria libertà? E che dire poi dell’amore, di questa ricerca spasmodica di qualcuno da amare e da cui essere amati che il più delle volte si conclude con la sua parodia, quando, pur di allontanare lo spettro della solitudine, preferiamo prolungare rapporti affettivi ormai logori? Avari di stupore e d’incanto, i nostri giorni sulla terra sanno regalarci solo la noia della ripetizione seriale.
Così, malgrado i numerosi tentativi di nasconderle o almeno minimizzarle, le ferite provocate dall’odierno sistema sociale le vediamo tutti. Sappiamo tutti di vivere in un mondo che fa male. Ma per renderlo sopportabile, vale a dire accettabile, è sufficiente oggettivarlo, fornirlo di una giustificazione storica, dotarlo di una logica implacabile davanti alla quale la nostra coscienza da ragionieri non può che capitolare. Per rendere più sopportabile la mancanza di vita e il suo ignobile baratto con la sopravvivenza — la noia di anni trascorsi in ufficio, l’abbandono forzato di amori e passioni, l’invecchiamento precoce dei sensi, il ricatto del lavoro, la devastazione ambientale, e via deprimendosi — cosa c’è di meglio che relativizzare questa situazione, paragonarla ad altre di maggiore angoscia e oppressione, cosa c’è di più efficace che metterla a paragone con il peggio?
Naturalmente sarebbe un errore ritenere quella del male minore una logica che si limita a regolare esclusivamente le nostre piccole faccende domestiche. Essa regola e amministra anche e soprattutto l’intera vita sociale, come ben sapeva quel giornalista. Di fatto, ogni società conosciuta dall’uomo viene giudicata imperfetta. Quali che siano le proprie idee, chiunque ha sognato di vivere in un mondo diverso da quello attuale: una democrazia più rappresentativa, un’economia più svincolata dall’intervento dello Stato, un potere non più centralizzato ma “federalista”, una nazione senza stranieri e di seguito fino alle aspirazioni più estreme.
Ma il desiderio di realizzare il proprio sogno spinge all’azione, perché solo l’azione si propone di trasformare il mondo, cioè di renderlo simile al sogno. Agire risuona all’orecchio come il fragore delle trombe di Gerico. Non esiste imperativo che possieda un’efficacia più rude e, per chi l’intende, la necessità di venire agli atti si impone senza indugio e senza condizione. Ma chi domanda all’azione di realizzare le aspirazioni che lo animano, riceve presto strane e inaspettate risposte. Il neofita impara in fretta che un’azione efficace è quella che si limita a realizzare sogni circoscritti, cupi e tristi. Non solo le grandi utopie, ma anche gli obiettivi che sembrano più a portata di mano si dimostrano difficilmente realizzabili. Così, chi credeva di trasformare il mondo secondo il proprio sogno, si ritrova a non fare altro che trasformare il suo sogno adattandolo alla realtà più immediata di questo mondo: al fine di agire produttivamente, si vede costretto a soffocarlo. Ecco perché la prima rinuncia che l’azione produttiva domanda a colui che vuole agire è che egli riduca il proprio sogno alle proporzioni indicate da ciò che esiste. Si spiega così, in poche parole, perché la nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di nasi turati. Di mali minori, per l’appunto.
A pensarci bene, è proprio per questo che il concetto di riformismo, alla cui causa oggi tutti (si) votano, rappresenta un’espressione compiuta della politica del male minore: un agire prudente, sottoposto all’occhio vigile della moderazione, che non perde mai di vista il proprio indice di gradimento, e che procede con una cautela degna della diplomazia più consumata. La preoccupazione di evitare scossoni è tale che, quando alcune circostanze avverse li rendono inevitabili, ci si affretta a legittimarli ostentando la sciagura peggiore evitata. Non siamo forse appena “usciti” da una guerra che è stata giustificata come male minore rispetto a una feroce “pulizia etnica”, così come cinquant’anni fa l’uso delle testate atomiche su Hiroshima e Nagasaki venne giustificato come un male minore rispetto alla prosecuzione del conflitto bellico? E questo malgrado tutti i governi del pianeta dichiarino di aborrire il ricorso alla forza nella risoluzione dei conflitti.
Già. Anche la classe dirigente riconosce la fondatezza delle critiche formulate nei confronti dell’attuale ordine sociale, di cui essa è per altro responsabile. A volte capita addirittura di trovare alcuni suoi esponenti in prima linea nel denunciare formalmente le discriminazioni delle leggi del mercato, il totalitarismo del “pensiero unico”, gli abusi del liberalismo. Anche per queste realtà, tutto ciò è un male. Ma un male inevitabile, di cui si può tentare al massimo di diminuire gli effetti.
Il male in questione, quello da cui non ci si può liberare — lo avrete già capito —, è un ordinamento sociale basato sul profitto, sul denaro, sulla merce, sulla riduzione dell’uomo a cosa, sul potere, e che ha nello Stato uno strumento di coercizione indispensabile. Ed è solo dopo aver messo fuori discussione l’esistenza del capitalismo, con tutti i suoi corollari, che gli addetti alla politica possono interrogarsi su quale sia la forma capitalista che possa rappresentare il male minore da sostenere. Al giorno d’oggi la preferenza va accordata ad una democrazia, che non a caso viene presentata come il “meno peggiore dei sistemi politici conosciuti”. Se confrontata col fascismo o con lo stalinismo, essa ottiene facilmente l’adesione del senso comune occidentale, tanto più che la menzogna democratica si fonda sulla partecipazione (illusoria) dei propri sudditi alla gestione della cosa pubblica, che così verrebbe ad apparire perfezionabile. In questo modo diventa facile convincersi che una condotta dello Stato «più giusta», una «migliore ripartizione delle ricchezze», oppure un «più oculato sfruttamento delle risorse», costituiscono le uniche possibilità a disposizione per affrontare i problemi posti dalla nostra civiltà moderna.
Ma così facendo si omette un particolare fondamentale, vale a dire si omette di cogliere ciò che unisce nella loro essenza le diverse alternative avanzate: l’esistenza del denaro, del lavoro, del commercio, delle classi, del potere. Ci si dimentica, per così dire, che scegliere un male, seppur minore, è la maniera migliore di prolungarlo. Per riprendere gli esempi appena fatti, uno Stato «più giusto» è quello che decide di bombardare un intero paese per convincere uno Stato «più sbagliato» a cessare le operazioni di pulizia etnica al proprio interno. La differenza esiste, inutile negarlo, ma la percepiamo solo nella ripugnanza che ci ispira una logica di Stato capace di giocare con la vita di migliaia di persone, sgozzate o bombardate che siano. Allo stesso modo, una «migliore ripartizione delle ricchezze» è quella che intende evitare di concentrare nelle tasche dei soliti pochi il frutto del lavoro dei soliti molti. Ma questo cosa significa? In poche parole, che cambierà il coltello con cui i signori della terra taglieranno le fette della torta della ricchezza mondiale e che magari si aggiungerà un posto in più alla tavolata degli allegri commensali. Quanto al resto dell’umanità, dovrà continuare ad accontentarsi delle briciole. Per finire, nessuno oggi oserebbe negare che lo sfruttamento della natura abbia provocato innumerevoli catastrofi ambientali. Ma non occorre essere esperti in materia per capire che rendere questo sfruttamento «più oculato» non servirà ad impedire ulteriori catastrofi, bensì unicamente a rendere anche queste più oculate. Ma esiste una catastrofe ambientale oculata, e con quali parametri si può misurare?
Una piccola guerra è meglio di una grande guerra, essere plurimiliardari è meglio che essere miliardari, le catastrofi circoscritte sono meglio delle catastrofi estese. Come non vedere che, percorrendo questa strada, si continuano a perpetuare le condizioni sociali, politiche ed economiche che rendono possibile lo scoppio di guerre, l’accumulazione di privilegi, il verificarsi di catastrofi? Come non vedere che una simile politica non presenta nemmeno una minima utilità pratica, ché quando la misura è colma basta una goccia e il vaso trabocca? Dal momento in cui si rinuncia a mettere in discussione il capitalismo in quanto totalità comune a tutte le diverse forme di ordinamento politico e si preferisce passare al mero paragone fra le varie tecniche di gestione dello sfruttamento, la persistenza del male è assicurata. Non è forse vero che, davanti alla difficoltà di continuare ad imporre il sistema capitalista sotto i colori del socialismo dell’Est, è stato ripresentato sotto le vesti del liberalismo dopo aver fatto cadere il muro di Berlino? Non è forse vero che in Italia, davanti alla minaccia reazionaria di un governo di destra, si è preferito un governo di sinistra che ha surclassato il proprio avversario sul terreno stesso della reazione? Anziché porsi il problema se è il caso di avere un padrone a cui obbedire, si preferisce scegliere il padrone che bastona di meno. Attraverso questo procedimento ogni slancio, ogni tensione, ogni desiderio di libertà viene ricondotto a più miti consigli: invece di colpire le nocività che ci avvelenano, se ne biasimano gli eccessi. All’interno di questo contesto, più virulenza si usa per denunciare simili eccessi, più si consolida ciò che li produce. La piaga si richiude su questo glissamento ideologico, senza lasciare via di scampo. E fin quando la questione da risolvere sarà quella di come gestire il dominio anziché prendere in considerazione la possibilità di farne a meno e pensare a come realizzare ciò, la logica di chi ci governa e amministra continuerà a dettare le misure da prendere nei confronti di tutti.
Dopo il danno, non poteva mancare la beffa. Ad ogni giro di timone, ci viene assicurato che il risultato ottenuto non può essere peggiore di quello precedente; che la politica perseguita, sempre proiettata verso il progresso, sbarrerà la strada a quella più conservatrice; che dopo aver sopportato in silenzio tante difficoltà, ora siamo infine sulla strada giusta. Di male minore in male minore, gli innumerevoli riformisti che affollano questa società ci conducono così di guerra in guerra, di catastrofe in catastrofe, di sacrificio in sacrificio. Ed è accettando questa logica mortificante di ragione spicciola e di sottomissione quotidiana allo Stato che — a forza di fare calcoli, di soppesare tra male e male — si può arrivare un giorno a mettere sul piatto della bilancia la propria stessa vita: meglio crepare subito, che continuare a languire su questa terra. Deve essere questo il pensiero che arma la mano del suicida. A furia di turarsi il naso per votare a favore del potere, si finisce con lo smettere di respirare.
Come abbiamo visto, restare nell’ambito del male minore non pone troppi problemi; il problema comincia nel momento in cui si esce da questo ambito, nel momento in cui lo si distrugge. Basta osservare che tra due mali il peggiore è sceglierne uno, ed ecco la polizia bussare alla porta. Se si è nemici di qualsiasi partito, di qualsiasi guerra, di qualsiasi ricco, di qualsiasi sfruttamento della natura, non si può che risultare sospetti all’occhio dell’autorità. In effetti, è qui che comincia la sovversione. Rifiutare la politica del male minore, rifiutare questo istinto che induce a conservare la propria esistenza invece di viverla, porta necessariamente a mettere in gioco ogni cosa in quanto il mondo reale e le sue “necessità” perdono di significato. Non che l’Utopia sia immune alla logica del male minore, no di certo. Durante i periodi rivoluzionari è proprio in questo modo che sono stati fermati gli assalti degli insorti: quando infuria la tempesta e le ondate minacciano di spazzare via tutto, c’è sempre qualche rivoluzionario più realista del Re che si affretta a dirottare la rabbia popolare verso rivendicazioni più “ragionevoli”. Dopo tutto, anche chi vuole mettere sottosopra questo mondo ha paura di perdere tutto. Anche se di quel tutto, non c’è nulla che davvero gli appartenga.
domenica 23 dicembre 2012
Vittorio Gassman - La ballata delle madri di P.P. Pasolini
Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d'esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?
Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.
Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d'amore,
se non d'un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.
Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l'antico, vergognoso segreto
d'accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.
Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!
Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
- nel vostro odio - addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
E' così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.
mercoledì 19 dicembre 2012
Jorge Luis Borges - Se potessi vivere di nuovo la mia vita
Se io potessi vivere un'altra volta la mia vita
nella prossima cercherei di fare più errori
non cercherei di essere tanto perfetto,
mi negherei di più,sarei meno serio di quanto sono stato,
difatti prenderei pochissime cose sul serio.
Sarei meno igienico,correrei più rischi,farei più viaggi,guarderei più tramonti,salirei più montagne,nuoterei più fiumi,andrei in posti dove mai sono andato,mangerei più gelati e meno fave,avrei più problemi reali e meno immaginari.
Io sono stato una di quelle persone che ha vissuto sensatamente e precisamente ogni minuto della sua vita;certo che ho avuto momenti di gioia ma se potessi tornare indietro cercherei di avere soltanto buoni momenti.Nel caso non lo sappiate, di quello è fatta la vita,solo di momenti, non ti perdere l'oggi.
Io ero uno di quelli che mai andava in nessun posto senza un termometro,una borsa d'acqua calda, un ombrello e un paracadute;
se potessi vivere di nuovo comincerei ad andare scalzo all'inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell'autunno.
Farei più giri nella carrozzella,guarderei più albe e giocherei di più con i bambini,se avessi un'altra volta la vita davanti.
Ma guardate, ho 85 anni e so che sto morendo.
Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno1986)
martedì 18 dicembre 2012
Lettera aperta di Gérard DEPARDIEU, a Jean-Marc AYRAULT, primo Ministro di François HOLLAND
Miserabile, lei ha detto “miserabile”? Com’è miserabile.
Sono nato nel 1948, ho cominciato a lavorare quando avevo 14 anni come tipografo, come magazziniere e poi come artista drammatico.
Ho sempre pagato le tasse e le imposte, di qualsiasi aliquota e di qualsiasi Governo.
In nessun momento non ho ottemperato ai miei doveri.
Ho sempre pagato le tasse e le imposte, di qualsiasi aliquota e di qualsiasi Governo.
In nessun momento non ho ottemperato ai miei doveri.
I film storici che ho interpretato, sono la testimonianza del mio amore per la Francia e per la sua storia.
Personaggi più illustri di me sono stati esiliati o hanno abbandonato il nostro Paese.
Sfortunatamente non ho più nulla da fare qui, ma continuerò ad amare i francesi e il pubblico con cui ho condiviso molte emozioni!
Personaggi più illustri di me sono stati esiliati o hanno abbandonato il nostro Paese.
Sfortunatamente non ho più nulla da fare qui, ma continuerò ad amare i francesi e il pubblico con cui ho condiviso molte emozioni!
Parto, perchè considerate che il successo, la creazione, i talenti, in pratica la differenza, debbano essere sanzionati.
Non chiedo approvazione, ma potreste almeno rispettarmi. Tutti coloro che hanno lasciato la Francia, non sono stati insultati come il sottoscritto.
Non devo giustificare le ragioni della mia scelta, che sono tante e intime.
Non chiedo approvazione, ma potreste almeno rispettarmi. Tutti coloro che hanno lasciato la Francia, non sono stati insultati come il sottoscritto.
Non devo giustificare le ragioni della mia scelta, che sono tante e intime.
Parto dopo aver pagato, nel 2012, l’85% di imposte sul reddito. Ma voglio conservare lo spirito di questa Francia, che era bella e che spero lo resterà.
Vi restituisco il mio passaporto e la mia tessera della mutua, di cui non mi sono mai servito.
Non abbiamo più la stessa patria, io sono un vero europeo, un cittadino del mondo, come mi ha sempre inculcato mio padre.
Non abbiamo più la stessa patria, io sono un vero europeo, un cittadino del mondo, come mi ha sempre inculcato mio padre.
Trovo miserabile l’accanimento della giustizia nei confronti di mio figlio Guillame, giudicato da Giudici che l’hanno condannato, quando era ancora un ragazzo, a 3 anni di prigione per 2 grammi di eroina, quando molti altri venivano risparmiati per reati ben più gravi.
Non condanno tutti quell che hanno il colesterolo alto, la pressione alta, il diabete, quelli che bevono troppo alcol o che si addormentano sul loro motorino: sono uno di loro, come i vostri cari media amano sempre ripetere.
Non ho mai ammazzato nessuno, non penso di avere dei demeriti, ho pagato 145 MILIONI di € di imposte in 45 anni, ho dato lavoro ad 80 persone nelle aziende che sono state create per loro e gestite da loro.
Non sono qui per lamentarmi, né per vantarmi, ma rifiuto il termine “miserabile”.
Non sono qui per lamentarmi, né per vantarmi, ma rifiuto il termine “miserabile”.
Chi siete voi per giudicarmi così, glielo chiedo signor Ayrault, primo Ministro del signor Hollande, vi chiedo, chi siete voi?
Malgrado i miei eccessi, il mio appetito, il mio amore per la vita, sono un essere libero, signore, e non voglio essere maleducato.
Gérard DEPARDIEU
Traduzione di Valentina Cavinato
Traduzione di Valentina Cavinato
domenica 16 dicembre 2012
La storia del pescatore e dell'economista
Un uomo d'affari americano era sul pontile di un piccolo villaggio di mare
messicano quando vide attraccare una piccola barca con un pescatore a bordo.
Nella barca c'erano diversi grandi tonni dalle pinne gialle.
L'americano fece i complimenti al pescatore per la qualità dei pesci e gli
chiese quanto tempo avesse impiegato per prenderli.
Il messicano rispose: "Pochissimo".
Allora l'americano gli chiese: "Perché non è rimasto fuori più lungo per
pescare un maggior numero di pesci?"
Il messicano rispose che ne aveva pescato abbastanza per soddisfare le
esigenze della sua famiglia.
Quindi l'americano chiese: "Ma che cosa fa con il resto del suo tempo?"
Il pescatore rispose: " Dormo fino a tardi, pesco un po', gioco con i miei
bambini, faccio una siesta con mia moglie Maria, vado ogni sera al
villaggio dove bevo vino, suono la chitarra con i miei amigos; ho una
vita intensa e complicata, senor. "
L'americano esclamò: "Io sono laureato ad Harvard e potrei aiutarla.
Dovrebbe passare più tempo a pescare e con il ricavato comprare una barca
più grande, con il ricavato della barca più grande potrebbe comprare tante
barche, alla fine avrebbe una flotta di pescherecci. Invece di vendere il
pesce ad un intermediario potrebbe venderlo direttamente ed eventualmente
aprire una attività in proprio. Controllerebbe il prodotto, il processo e
la distribuzione. Dovrebbe lasciare questo piccolo villaggio di pescatori,
spostarsi a Mexico City, quindi a Los Angeles e finalmente a New York dove
dirigerebbe la sua impresa in costante espansione."
Il pescatore chiese: "Ma senor, quanto tempo ci vuole per fare tutto
questo?"
L'americano rispose: "15-20 anni"
"E dopo, senor?"
L'americano sorrise e disse che a quel punto iniziava la parte migliore.
"Al tempo opportuno annuncerà una offerta pubblica di vendita, venderà
tutto lo stock allo Stato e diventerà molto ricco, farà i miliardi"
"Miliardi, senor? E poi?"
L'americano: "A quel punto andrà in pensione. Andrà in un piccolo
villaggio di pescatori dove potrà dormire fino a tardi, pescare un po',
giocare con i bambini, fare una siesta con sua moglie, andare alla sera al
villaggio per bere vino e suonare la chitarra con i suoi amigos..."
Andrea - Basta semplicemente dire NO
Mi sono scocciato di sottostare alla legge del vivere civile che ti assoggetta a dire sì senza convinzione quando i no, convintissimi, ti saltano alla gola come tante bolle d'aria. Eduardo De Filippo, Gli esami non finiscono mai, 1973
Nicola e Stefano,
premetto che mi ritengo una persona che, in prima istanza,
tenta sempre di addivenire ad un compromesso che possa essere di beneficio a
tutte le parti contendenti.
In termini molto generali e minimizzando quindi la realtà della nostra azienda,
alla luce di tutto ciò che ho visto e che vedo attorno a me, alla luce delle
informazioni che giornalmente mi sforzo di racimolare ed ordinare nella mia
mente, alla luce di innumerevoli esempi quotidiani di cui sono, a volte attivo
ed a volte inerte spettatore, alla luce di semplici statistiche che vedono
aumentare i redditi dei sempre più ricchi a discapito dei redditi dei sempre
più poveri, alla luce di molti altri motivi che non mi dilungo ad elencarvi,
sono giunto alla conclusione che non e’ più tempo ne' mia intenzione procedere
ad accordi, mediazioni, compromessi, patti o quant’altro con gente animata
unicamente dal proprio immediato e malcelato, per non dir palese, profitto.
A mio avviso, e’ giunto il momento di porre un ostacolo
insuperabile ai continui tentativi di “limare al ribasso” i diritti della
maggioranza delle persone a vantaggio effettivo dei soliti pochi noti e non
della collettività.
Basta semplicemente dire NO.
Dirlo a voce alta ben sapendo che costerà grossi, iniziali,
sacrifici.
Personalmente sono disposto a questi sacrifici in quanto
sono fermamente convinto che sia l’unico modo per liberarsi dal giogo nel quale
siamo stati messi, a vantaggio almeno delle generazioni future.
L’unico problema, se e’ un problema, e’ che la maggior parte
delle persone non la pensa così.
La maggior parte delle persone e’ fiduciosa che i
“reiterati” e “piccoli” sacrifici che gli vengono imposti, e a cui si
assoggettano docilmente, siano comunque necessari, soprattutto se paragonati ad
alternative “catastrofiche”, come ad esempio l’esternalizzazione o la perdita
del lavoro.
La maggior parte delle persone e’ disposta ad arrivare a
“grattare” il fondo del barile prima di ribellarsi, quando forse non ne avra' neanche più la forza.
La maggior parte delle persone, ed i millenni precedenti -
con rare eccezioni - ce lo dimostrano,
non si rende conto di quanto a portata di mano possa essere la realizzazione di
una vita da uomo libero piuttosto che una vita da schiavo.
Le stesse organizzazioni sindacali, compromesso dopo
compromesso, hanno avuto un ruolo
importante nel perdere le conquiste dei nostri padri e nel costringere i nostri
figli a “sopravvivere” con un lavoro precario mal retribuito ed incerto come la stessa parola insegna.
Basta semplicemente dire NO.
Dirlo a voce alta ben sapendo che costerà grossi, iniziali,
sacrifici.
Dirlo anche quando il compromesso può risultare
“conveniente” ad una miope visione.
Dirlo non avendo paura di incorrere nelle ire delle persone
che il più delle volte e per vari motivi non riescono o non vogliono o non
possono avere una visione più approfondita di ciò che li circonda.
Comunque, una magra consolazione mi solleva debolmente.
E’ il pensiero che, quando le future generazioni protesteranno per le condizioni lavorative, famigliari, economiche, sociali
che si troveranno a dover subire per l’inezia, egoismo, codardia della
maggioranza dei loro genitori, almeno potrò dire che la mia, piccola parte, ho
tentato di farla, provando a porre il “bene collettivo maggiore” come obiettivo
unico perseguibile.
… è forse poco, ma è ciò che resta a persone come me che
avendo un perché per vivere possono sopportare anche il destino che li
travolge.
Andrea
Abramo Lincoln - L'imbroglio
«Si può imbrogliare qualcuno sempre, tutti qualche volta, ma non tutti sempre».
Abramo Lincoln
Abramo Lincoln
Anonimo - Ragione e forza
"La ragione della forza è sempre evidente e la favola della forza della ragione è per i creduloni, il mondo va avanti usando la ragione della forza"
Anonimo
Anonimo
Antonio Gramsci - Nodi
"Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare."
Antonio Gramsci
Antonio Gramsci
sabato 15 dicembre 2012
Italo Calvino - Inferno
"... l'inferno che abitiamo tutti i giorni stando insieme. Possiamo diventarne parte fino a non vederlo più, oppure con attenzione cercare e riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio".
Italo Calvino
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